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Fiore di roccia: la nostra review

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Fiore di roccia di Ilaria Tuti (edito da Longanesi), racconta un pezzo di storia troppo a lungo dimenticata: quella delle Portatrici carniche, diventate anche loro soldati a fianco degli alpini, fonte della loro resistenza.

Il libro è vincitore del Premio letterario nazionale per la donna scrittrice 2021 e del Premio Internazionale di letteratura città di Como VIII edizione – Sezione Narrativa Edita.

Trama

Sul confine della Carnia, in mezzo ai combattimenti della Grande Guerra, sono rimaste solo le donne a prendersi cura dei vecchi e dei bambini. Gli uomini sono tutti sui monti, nelle prime linee, tra i battaglioni degli alpini allo stremo. Abituate a essere definite attraverso il bisogno di qualcun altro, le mani ruvide e callose per la fatica, le gambe irrobustite dai lavori pesanti nei campi e nelle case, le donne di Timau vengono chiamate dal Comando in difficoltà: necessitano viveri e munizioni nelle trincee.

 

Agata e trenta compagne escono dall’ombra delle loro giornate stanche, e indossano le gerle: alcune poco più che bambine, sono state rese adulte dalla terra aspra, dalla paura e dalla fame. Nessuna si tira indietro, si carica di quello che serve, le cinghie che segano le spalle; curve si incamminano, diventano muli, in fila sui sentieri, ampissimi dislivelli di salita nervosa, uno sfinimento per raggiungere i soldati e poi ridiscendere a valle.

 

È una salita al Golgota quella di Agata e delle altre donne, tra sassi spaccati dalle frane che rotolano ai loro piedi come teschi, monoliti di pietra che le osservano in un cielo grigio increspato dal vento nel quale risuona la cantilena delle preghiere e del canto, per non sentire i rumori dell’artiglieria. Agata cammina ostinata, verso un silenzio diverso da quello della pietra, il silenzio della conta dei morti.

 

In cima, sul Pal Piccolo, gli occhi di Agata si immergono nella foschia delle trincee, torrenti di corpi a brandelli, da cui si elevano i lamenti dei soldati feriti. È una cloaca di poveri dannati, la prima linea, e nel buio di quegli antri di morte Agata tira fuori una fierezza primordiale, tutto il coraggio che è sempre stato concime della sua terra, e che le porta il rispetto dei soldati.

 

Le Portatrici arrivano ad essere come un vero reparto dell’esercito, sempre più numeroso a ogni salita, e a ogni devastante discesa, con le gerle leggere sulle schiene, ma il dolore spostato alle braccia, che portano le barelle dei cadaveri per poi scavarne il cimitero: momento nero pieno di significato, perché alle donne appartengono la vita e la morte, in un misto di forza e compassione che ha qualcosa di sacro, come il paesaggio che le circonda.

La nostra review

La friulana Ilaria Tuti, che ha conquistato lettori in tutto il mondo con Fiori sopra l’inferno e Ninfa dormiente, attraverso il personaggio del commissario Teresa Battaglia, rende omaggio in modo intenso e suggestivo alle donne della sua terra.

Con Fiore di roccia l’autrice celebra il coraggio e la resilienza delle donne, la capacità di abnegazione di contadine umili ma forti nel desiderio di pace; sono donne pronte a sacrificarsi per aiutare i militari al fronte durante la Prima Guerra Mondiale. La Storia si è dimenticata delle Portatrici per molto tempo. Questo romanzo ce le racconta e restituisce per ciò che erano e sono: indimenticabili.

 

Quella di Agata è una tenacia delicata come una stella alpina, aggrappata alla montagna: sono fiori di roccia, le donne carniche, piegate sotto il peso di una guerra che sono state capaci di combattere con eroismo. A loro verrà infatti conferita la Croce di Cavaliere, consegnata alle reduci novantenni da Oscar Luigi Scalfaro nel 1997.

 

La Tuti dà il suo contributo a rendere immortale il sacrificio delle donne di Timau. Si cala in quegli eventi, facendosi spazio tra le pieghe della storia, dove solo l’empatia e l’ispirazione di un artista si possono avventare per concatenare fatti e farli pulsare di vita, di emozioni. L’autrice diventa una di quelle eroine, creando il personaggio di Agata Primus, la protagonista. Un artificio letterario, ma che le permette di sentire, di vedere, di parlare, di provare in prima persona. Tutto il romanzo è intriso di sentimenti potenti, quelli che si collocano tra la vita e la morte facendo la differenza.

 

Fiore di roccia, infatti, va molto oltre la necessaria testimonianza di un frammento essenziale della nostra storia. Attraverso la voce di Ilaria Tuti, la vicenda si fa narrazione epica, lirica e dal sapore arcaico, diventando universale, e trasmettendo un messaggio di umanità che trascende ogni conflitto, supera gli anni, i confini, le diversità e le lingue, e arriva fino a noi con la forza di una dichiarazione che dimentica ogni odio e sceglie la speranza.

 

Tutto è immerso in una natura immane che sembra distante e impassibile alla tragedia che le si sta consumando davanti. Spettatrice distaccata delle vicende umane, come fossero un ineluttabile ciclo dell’esistenza. Titanica si staglia nelle descrizioni della Tuti, quasi a sentirla respirare. Assurge a ruolo di personaggio. Non rappresenta una semplice scenografia: è viva.

 

La caratterizzazione dei personaggi è superlativa. La loro personalità si delinea magistralmente nei dialoghi e in veloci, incisive descrizioni di gesti, posture, espressioni. Ognuno di loro ha un proprio gergo dato dal ruolo, dall’estrazione sociale, dall’età, dal sesso. La scrittura è scorrevole, composta di periodi generalmente brevi, dove ogni parola è ricercata accuratamente, pesata. La Tuti dà l’impressione di aver fatto attenzione anche al suono dei termini usati, alla loro onomatopeicità, per amplificare le emozioni generate dagli episodi. Il suo stile sembra avere musicalità, a volte graffiante a volte dolce.

 

Fiore di roccia è la forza che non si sa di avere, e la tenacia e la necessità di tenersi in vita. È l’interrogativo sulla sostanza dei sentimenti umani. È la diffidenza che si insinua nell’anima, e allo stesso tempo, l’annichilimento del risentimento. È la scoperta della ferocia, della lotta alla sopravvivenza e del tradimento dettato dal bisogno di sentirsi umani.